martedì 29 novembre 2016

La Riforma della Costituzione e l'infantilismo della Politica italiana - Il mio SÌ al referendum

A pochi giorni dalla chiusura della campagna referendaria mi voglio cimentare in una valutazione «nel merito» del provvedimento che, dopo anni di discussioni ed anche di fallimenti, viene sottoposto al giudizio degli elettori.
Lo faccio dopo aver constatato, purtroppo, che la maggior parte degli interventi, soprattutto sui social network, non badano alla sostanza della riforma ma, essenzialmente, sono il frutto di una scelta pre-giudiziale, in cui il giudizio sui contenuti viene accantonato per dar posto al giudizio sul governo, sui partiti, sulle persone, ecc. ecc.. .
 
La riforma proposta si basa su alcuni punti qualificanti:

  • L'abolizione di un Senato elettivo e l'istituzione di un Senato delle autonomie formato da 100 componenti;
  • Lo snellimento nei tempi per approvare le leggi;
  • L'abolizione del Cnel (Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro);
  • Il riordino delle competenze tra Stato e Regioni con il ritorno allo Stato di materie strategiche per lo sviluppo e la programmazione economica del Paese;
  • L'abolizione formale e definitiva dalla Carta costituzionale delle Province.



La riforma del Senato,  che è il cuore della riforma stessa, permette la riduzione del numero dei senatori e l'abolizione del bicameralismo perfetto, voluto dai padri costituenti per ripartire la sovranità democratica in due Camere.

Il superamento del bicameralismo perfetto, rimasto unico caso in Europa, insieme allo sganciamento del Senato dal rapporto di fiducia al Governo, permetterà di creare una Camera politica basata sulla dialettica tra maggioranza e minoranza, come avviene in Francia, Inghilterra, Spagna, Germania e Usa. Eliminerà il cosidetto effetto "ping pong" con le lungaggini dovute agli infiniti passaggi tra Camera e Senato.

Nel nuovo assetto Camera e Senato avranno poteri diversi. La Camera voterà la fiducia al Governo e le leggi ordinarie, evitando maggioranze diverse, che bloccano, come in queste ultime legislature, l'operato del Governo, mentre il Senato rappresenterà le istituzioni territoriali e concorrerà all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato e l'Unione Europea.

Il nuovo Senato sarà composto da 100 membri, 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 componenti nominati dal Presidente della Repubblica. La loro carica durerà sette anni, mentre rimarranno senatori a vita gli ex Presidenti della Repubblica.

La riforma conserva l'immunità parlamentare per i senatori nell'esercizio delle loro funzioni e non, come si vorrebbe far credere, per fatti connessi alla carica di Consigliere Regionale o Sindaco. Inoltre, una nuova legge elettorale dovrà stabilire le regole di elezione dei consiglieri-senatori.

I Senatori non percepiranno indennità di carica ma manterranno quella dei Consigli regionali e dei Comuni da cui proverranno.

Altri punti della riforma:

  • La soppressione delle Province: la Repubblica, infatti, sarà costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Per questo il nuovo Senato diventerà l'organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali.
  • La soppressione del Cnel, composto da 64 consiglieri e da un presidente, con relativa eliminazione di burocrazia e di poltrone.
  • Le materie concorrenti tra Stato e Regioni, che in questi anni hanno contribuito a bloccare il Paese ed il lavoro della Corte Costituzionale, chiamata a dirimere i conflitti tra Stato e Regioni, sono state restituite allo Stato secondo quanto la Corte ha stabilito in questi ultimi anni. Per esempio, saranno di competenza esclusiva dello Stato la gestione delle reti di trasporto, i porti e aeroporti civili e la distribuzione di energia ed altre materia di importanza strategica.
  • Il procedimento legislativo è stato snellito: le leggi verranno approvate dalla sola Camera ed il Senato potrà esaminarle e, nei 30 giorni successivi, proporre modifiche su cui la Camera si pronuncerà in via definitiva. È previsto il «voto a data certa», entro 70 giorni, per i provvedimenti che il Governo ritenga essenziali per adempiere al suo programma di governo sul quale ha ricevuto il voto del corpo elettorale.
  • Per l'elezione del Presidente della Repubblica si prevede un quorum più alto, per cui non potrà essere eletto un presidente che non abbia un ampio consenso parlamentare e, quindi, con il coinvolgimento delle minoranze;
  • Viene introdotto il referendum propositivo e di indirizzo per la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Se le firme raccolte saranno più di 800.000, la riforma prevede una sorta di premio per il referendum: il quorum sarà calcolato sulla metà dei votanti delle ultime politiche e non più sulla metà più uno degli aventi diritto. Mentre le firme per presentare un disegno di legge di iniziativa popolare passano da 50.000 a 150.000, i regolamenti della Camera dovranno indicare però tempi certi per l'esame in assemblea.
  • Per la prima volta viene riconosciuto in Costituzione uno statuto per le opposizioni e sarà possibile distinguere l'operato del Governo dalle opposizioni, che avranno dignità come nei modelli di matrice anglosassone.

Questa è la riforma e non mi pare vi sia niente di pericoloso per la democrazia, anzi, se è vero che questa deve essere efficace se vuole mantenere il consenso popolare e non alimentare, quindi, con l'inefficacia i populismi di varia natura, credo stiamo andando nella direzione giusta.
Ed è evidente che se la riforma viene valutata nel merito non può non rappresentare un serio tentativo di semplificazione e di miglioramento delle istituzioni: come si fa a dire no al taglio dei parlamentari? O alla chiarezza nel rapporto tra Stato e Regioni? Alla riduzione del numero dei politici e dei loro stipendi? Eppure il dibattito di queste settimane rasenta l'inverosimile con una tale confusione che, temo, porterà molti elettori a non recarsi alle urne.

In questo guazzabuglio non poteva mancare la eterna divisione della sinistra e, più in particolare, del Partito Democratico, per oltre un ventennio sostenitrice dei capi saldi della riforma attuale, con il paradosso che parlamentari che l'hanno votata in aula ora sono tra i più accaniti sostenitori della sua bocciatura; come pure parlamentari del centro destra, nella fattispecie di Forza Italia, che ne hanno condiviso l'impostazione ai tempi del cosiddetto “patto del Nazareno”, e che ora la maledicono come la più grave iattura possibile. Tutte forme di infantilismo politico che da decenni ormai condiziona la vita del Paese con ripicche personali, vendette e smania di protagonismo.
Per non parlare delle grossolane stupidaggini che, pure se messe in bocca a personaggi della cosidetta cultura o dello spettacolo, sono semplicemente il tentativo dei depistare gli elettori.


Molto modestamente sono del parere che oggi, alle condizioni date, la riforma proposta sia la migliore possibile e che ha il merito di aver smosso le acque della palude in cui ci eravamo cacciati. Non mi pare sia da Paese normale, per parafrasare il titolo di un libro di un ex leader della sinistra italiana, avere avuto 63 governi in 70 anni, nè di impiegare anni per varare una legge che tutti riconoscono necessaria ma che non passa per il gioco dei veti e degli inciuci.

Gioverebbe ricordare che il Governo in carica è nato dopo che le elezioni politiche del 2013 avevano portato ad una situazione di stallo pericolosissima, con maggioranze diverse tra Camera e Senato frutto di una perfida legge elettorale che non dava la sicurezza di un vincitore certo e con la paralisi del parlamento che non riusciva a trovare l'accordo per l'elezione del Presidente della Repubblica.

Certo, possiamo dire con certezza che il gioco non dipende solo dalle regole ma dalla qualità dei suoi giocatori.

Su questo versante la riforma che mi auguro possa essere approvata dalla maggioranza dei cittadini italiani, non dà alcuna garanzia: per questo c'è bisogno di un ritorno alla politica ispirata dai princìpi che sono alla base del vivere democratico; da una seria responsabilità di costruzione del bene comune, quella che ha caratterizzato la nostra classe politica nell'immediato dopo guerra; da vero senso dello Stato, che è stata la bussola di molti uomini politici nel momenti più bui della nostra Repubblica e dall'etica pubblica che non è solo quella di chi ci governa ma che deve diventare modus operandi di tutti quanti noi.